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DIRITTO ALL’OBLIO. DEINDICIZZAZIONE DELLE VICENDE GIUDIZIARIE DAI MOTORI DI RICERCA PER IMPUTATI ASSOLTI e INDAGATI ARCHIVIATI : PRINCIPIO DI CIVILTA’ !

Lasciare una traccia buona di se, oltre il breve arco della nostra esistenza, è un’aspirazione di molti. C’è addirittura chi vive tutta la vita per questo scopo, tranne per chi si è imbattuto (malaguratamente) nella GIUSTIZIA PENALE.

In una società dove spesso i confini tra spazio pubblico e privato saltano, lasciarsi il proprio passato alle spalle (magari non proprio limpido) può risultare difficile. Faccio un esempio pratico, una persona che ha scontato una pena tanti anni fa, rispetto alla quale quei fatti del passato non hanno più influenza sul presente, avrebbe tutto il (legittimo!) diritto di ricominciare e non per questo essere discriminato, restando indeterminatamente esposto ai danni che quella vicenda (oramai risolta) gli ha arrecato a seguito della notizia legittimamente divulgata.

Ebbene, proprio parallelamente alla diffusione di Internet e alla digitalizzazione delle informazioni che come sappiamo non conosce confine e dove tutto è connesso e chiunque può all’istante e ovunque trovare notizie sul conto di una persona, si è andato sviluppando, in linea con le direttive europee, il c.d. DIRITTO ALL’OBLIO ?

Voi direte, ma cos’è il diritto all’oblio ?

Cercherò di spiegarlo !

Il DIRITTO ALL’OBLIO (ovvero il diritto ad essere dimenticati) è quel diritto connesso al diritto alla riservatezza e protezione dei propri dati personali, attraverso il quale un soggetto, in presenza di una serie di motivi, richiede la cancellazione del proprio nominativo e/o riferimenti che lo rendono individuabile dai motori di ricerca di vicende che gli riguardano e che a distanza di tempo gli recano una ingiustificata offesa all’onore, alla reputazione o alla riservatezza. Non sempre, tuttavia, questo diritto è riconosciuto. Invero, tale diritto incontra un limite, anzi va bilanciato con l’altro diritto fondamentale, il diritto di cronaca, all’informazione e interesse pubblico alla conoscenza di un fatto circoscritto in un arco di tempo necessario ad informare la collettività, interesse che con il tempo, generalmente, si affievolisce fino a scomparire.

Dunque, premesso che la giurisprudenza della Cassazione e la Corte di Giustizia Europea hanno stabilito che non è di regola possibile imporre alle testate giornalistiche di rimuovere gli articoli che sono collegati al proprio nome, l’unico modo per ottenere a rimozione dei propri dati collegati ad una determinata vicenda/notizia è la c.d. DEINDICIZZAZIONE della notizia stessa dai motori di ricerca.

Chiederete, in cosa consiste la deindicizzazione ?

Ebbene, atteso che l’indicizzazione e quel meccanismo attraverso il quale un articolo appare sul web e proposto dai motori di ricerca (ad es. Google) e attraverso essi proposto agli utenti, la deindicizzazione costituisce un vero e proprio ordine che viene impartito ai motori di ricerca con il quale si invita a non mostrare più i risultati dei quali l’interessato ha chiesto l’oscuramento. La procedura di deindicizzazione in passato era abbastanza complessa per coloro che assolti o prosciolti richiedevano, tramite il giudice civile o l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, di oscurare i dati personali.

La Riforma Cartabia, entrata in vigore il 30 dicembre scorso, preso atto del problema reale è intervenuta affermando un principio di civiltà, introducendo l’art. 64-ter delle norme di attuazione di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, riconoscendo anzi un DIRITTO ALL’OBLIO POTENZIATO. In particolare, detto articolo prevede il diritto della persona nei cui confronti sia stata pronunciata una sentenza di assoluzione o un decreto di archiviazione, di richiedere l’INIBITORIA alla INDICIZZAZIONE (dunque di futuri articoli) o la DEINDICIZZAZIONE sulla rete internet dei dati personali. La procedura, nei fatti, non competerà al giudice, ma al cancelliere del giudice che ha emesso la sentenza previa apposizione di apposita formula sull’emesso favorevole provvedimento. In altri termini, tradotto in soldoni, avremo che il fatto, la vicenda giudiziaria, con tutti i dettagli, resterà, la storia del processo e dell’inchiesta non verranno cancellati, ma chi cercherà, successivamente, su internet il nome del soggetto coinvolto, non lo troverà più perché quel nome sarà cancellato dai motori di ricerca e dunque quel fatto storico non potrà essere più ricondotto alla persona alla fine assolta.

Rimangono, invece, intatti per il resto i rimedi per gli altri casi diversi da quello dell’esito favorevole all’indagato o all’imputato del procedimento penale, relativi alla risalenza nel tempo e al decadimento di interesse alla notizia o nel caso di intervenuta riabilitazione, quali casi previsti e riconosciuti per i quali era già possibile richiedere la deindicizzazione. In detti ultimi casi , infatti, posta la questione, il giudice valuterà se sussiste ancora un interesse pubblico ala notizia o è venuto meno detto interesse, valuterà se nel corso del tempo la notizia sia diventata “falsa” in quanto non aggiornata o ancora se la pubblicazione della notizia abbia danneggiato la dignità dell’interessato e l’esposizione dei fatti le esigenze all’informazione

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Penalista )

                                                                                     

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PREGIUDIZIO di COLPEVOLEZZA e GARANTISMO: anche l’Italia dal 14 dicembre recepisce il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio.

La legge sulla presunzione d’innocenza pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 29 novembre scorso, sarà operativa dal 14 dicembre.  In realtà, l’Italia recepisce una Direttiva UE (n. 343 del 2016) secondo la quale le autorità competenti devono astenersi dal presentare le persone sospettate o accusate come se fossero colpevoli, sia in tribunale che di fronte all’opinione pubblica. Di fatto, la predetta legge darà attuazione concreta a un principio già presente nella nostra Costituzione e alla base del nostro Stato di diritto . Assisteremo, dunque, con molta probabilità, ad una rivoluzione culturale nella rappresentazione delle persone sottoposte ad indagini e a processi con il fine preciso di incidere sul diritto di ogni cittadino a non essere “presentato” all’opinione pubblica come colpevole anzitempo.

Posto e precisato, infatti, che l’ INDAGATO è la persona sottoposta alle indagini preliminari e l’IMPUTATO è la persona sottoposta a giudizio, entrambe le figure, non possono essere assimilate al colpevole sino al momento della condanna definitiva.

E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, che è sufficiente, ormai, il famoso avviso di garanzia (atto del Pubblico Ministero con il quale si informa l’indagato del procedimento avviato informandolo della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e invitandolo, contestualmente e per quanto di legga, alla nomina del difensore) affinchè si generi nell’intero “sistema d’opinione” la certezza della colpevolezza salvo poi ad innescare, in conseguenza, una serie di dinamiche che si trasformano in una sorta di mix mediatico micidiale senza via di scampo per chi ne è destinatario. Dimentichiamo, infatti, con facilità, soprattutto quando una vicenda non ci coinvolge direttamente, che ogni vicenda giudiziaria ha un riflesso di non poco conto sul contesto di vita, sugli affetti, sull’immagine, sull’integrità morale, sugli effetti socio-lavorativi della persona coinvolta.

Sul punto nel 2018 si segnala una interessante ricerca sociologica volta ad appurare se diversi livelli di misure di contenimento usate dalla polizia hanno un impatto e influenzano la percezione pubblica di colpevolezza  (progetto Human Rights House Zagabria). I risultati della ricerca in tema di presunzione di innocenza sono stati piuttosto significativi. Invero, è stato riscontrato che qualunque persona tratta in arresto determina la percezione che sia colpevole, anzi detta ricerca precisa che l’opinione pubblica percepisce come colpevole le persone accompagnate dalla polizia, per via della presenza stessa della polizia. Inoltre, viene evidenziato che c’è una correlazione positiva tra alcuni atteggiamenti considerati negativi e la percezione di colpevolezza . Vale a dire che le persone tendono più probabilmente a considerare un soggetto come colpevole se gli attribuiscono atteggiamenti negativi (aggressivi, pericolosi ecc.) Lo studio, infine, rivela che le persone tendono anche a considerare una persona colpevole per via di stereotipi (ad esempio, indossare una felpa con cappuccio genera atteggiamento di sospetto) .

Tornando alla riforma, oggetto della disciplina saranno non solo le dichiarazioni delle autorità coinvolte direttamente nel procedimento penale e cioè pubblici ministeri, giudici, avvocati, dirigenti delle forse di polizia incaricate delle indagini, ma anche le dichiarazioni pubbliche rese da qualsiasi autorità pubblica (esponenti di Enti pubblici territoriali, Agenzie pubbliche e finanche ministri e parlamentari) che riguardino processi penali in corso, anche via web  e social. La finalità dell’innovazione, infatti, è quella di inibire e sterilizzare gli influssi pregiudizievoli sullo status dell’indagato e dell’imputato che possono provenire proprio da soggetti istituzionali a vario titolo dotati di autorità pubblica e operanti in posizioni di  preminenza rispetto alla generalità dei cittadini.

Dunque, d’ora in avanti  (anche se ciò già valeva prima !) nel nostro ordinamento la presunzione di innocenza coprirà  l’intera vicenda processuale: un soggetto incolpato di aver commesso un reato è legalmente “presunto innocente” fin dalle prime battute delle indagini preliminari e sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

L’art 27 della Costituzione menziona proprio la sentenza definitiva: la persona è presunta innocente fino al termine dell’iter processuale ovvero fino a quando si è pronunciata la Corte di Cassazione (nel caso in cui l’interessato attivi tutti i gradi di Giudizio) oppure decorrano i termini per esperire validamente le impugnazioni previste dalla Legge.

Emblematico è proprio un termine che compare nei lavori della Commissione Europea in tema di presunzione di innocenza : “ Opinione preconcetta” . Escludere opinioni preconcette vuol dire abbandonare, ogni pregiudizio sapendo che il processo penale è un congegno delicato fatto di regole e garanzie finalizzate all’accertamento della responsabilità dei singoli e solo il processo, inteso come dibattimento, serve per verificare l’ipotesi d’accusa, e siffatta verifica non può dirsi compiuta fino a quando non sopravviene una sentenza di condanna definitiva che consacra in modo irrevocabile la validità della tesi accusatoria. Questo è certamente il significato più profondo dell’affermazione costituzionale per cui nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva.

È dunque certamente nobile ed encomiabile che, in funzione di prevenzione, gli organi giudiziari e di polizia si spendano attivamente per sensibilizzare l’opinione pubblica sui fenomeni criminali più allarmanti, ma ciò dovrebbe avvenire – come già accade, per esempio, nelle scuole o in altri contesti culturali – al di fuori delle dinamiche del procedimento penale, e comunque in contesti in cui tali attività non rischiano di sfociare in una indebita violazione della presunzione di innocenza delle persone indagate.

Per concludere, l’idea di fondo della normativa sarà quella di limitare al massimo  tramite sterilizzazione, a monte, il materiale che genera quello che è il fenomeno, a tutti noto, della spettacolarizzazione dei processi.

L’esperienza dirà se la via prescelta è quella migliore e se si è approdati ad una matura cultura della comunicazione in grado di coniugare la correttezza dell’informazione con l’esigenza di dar conto all’opinione pubblica delle più significative attività  giudiziarie.

Avv. Carlo Carandente Giarrusso     (Avvocato Penalista – Patrocinante in Cassazione )

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