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DIRITTO ALL’OBLIO. DEINDICIZZAZIONE DELLE VICENDE GIUDIZIARIE DAI MOTORI DI RICERCA PER IMPUTATI ASSOLTI e INDAGATI ARCHIVIATI : PRINCIPIO DI CIVILTA’ !

Lasciare una traccia buona di se, oltre il breve arco della nostra esistenza, è un’aspirazione di molti. C’è addirittura chi vive tutta la vita per questo scopo, tranne per chi si è imbattuto (malaguratamente) nella GIUSTIZIA PENALE.

In una società dove spesso i confini tra spazio pubblico e privato saltano, lasciarsi il proprio passato alle spalle (magari non proprio limpido) può risultare difficile. Faccio un esempio pratico, una persona che ha scontato una pena tanti anni fa, rispetto alla quale quei fatti del passato non hanno più influenza sul presente, avrebbe tutto il (legittimo!) diritto di ricominciare e non per questo essere discriminato, restando indeterminatamente esposto ai danni che quella vicenda (oramai risolta) gli ha arrecato a seguito della notizia legittimamente divulgata.

Ebbene, proprio parallelamente alla diffusione di Internet e alla digitalizzazione delle informazioni che come sappiamo non conosce confine e dove tutto è connesso e chiunque può all’istante e ovunque trovare notizie sul conto di una persona, si è andato sviluppando, in linea con le direttive europee, il c.d. DIRITTO ALL’OBLIO ?

Voi direte, ma cos’è il diritto all’oblio ?

Cercherò di spiegarlo !

Il DIRITTO ALL’OBLIO (ovvero il diritto ad essere dimenticati) è quel diritto connesso al diritto alla riservatezza e protezione dei propri dati personali, attraverso il quale un soggetto, in presenza di una serie di motivi, richiede la cancellazione del proprio nominativo e/o riferimenti che lo rendono individuabile dai motori di ricerca di vicende che gli riguardano e che a distanza di tempo gli recano una ingiustificata offesa all’onore, alla reputazione o alla riservatezza. Non sempre, tuttavia, questo diritto è riconosciuto. Invero, tale diritto incontra un limite, anzi va bilanciato con l’altro diritto fondamentale, il diritto di cronaca, all’informazione e interesse pubblico alla conoscenza di un fatto circoscritto in un arco di tempo necessario ad informare la collettività, interesse che con il tempo, generalmente, si affievolisce fino a scomparire.

Dunque, premesso che la giurisprudenza della Cassazione e la Corte di Giustizia Europea hanno stabilito che non è di regola possibile imporre alle testate giornalistiche di rimuovere gli articoli che sono collegati al proprio nome, l’unico modo per ottenere a rimozione dei propri dati collegati ad una determinata vicenda/notizia è la c.d. DEINDICIZZAZIONE della notizia stessa dai motori di ricerca.

Chiederete, in cosa consiste la deindicizzazione ?

Ebbene, atteso che l’indicizzazione e quel meccanismo attraverso il quale un articolo appare sul web e proposto dai motori di ricerca (ad es. Google) e attraverso essi proposto agli utenti, la deindicizzazione costituisce un vero e proprio ordine che viene impartito ai motori di ricerca con il quale si invita a non mostrare più i risultati dei quali l’interessato ha chiesto l’oscuramento. La procedura di deindicizzazione in passato era abbastanza complessa per coloro che assolti o prosciolti richiedevano, tramite il giudice civile o l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, di oscurare i dati personali.

La Riforma Cartabia, entrata in vigore il 30 dicembre scorso, preso atto del problema reale è intervenuta affermando un principio di civiltà, introducendo l’art. 64-ter delle norme di attuazione di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, riconoscendo anzi un DIRITTO ALL’OBLIO POTENZIATO. In particolare, detto articolo prevede il diritto della persona nei cui confronti sia stata pronunciata una sentenza di assoluzione o un decreto di archiviazione, di richiedere l’INIBITORIA alla INDICIZZAZIONE (dunque di futuri articoli) o la DEINDICIZZAZIONE sulla rete internet dei dati personali. La procedura, nei fatti, non competerà al giudice, ma al cancelliere del giudice che ha emesso la sentenza previa apposizione di apposita formula sull’emesso favorevole provvedimento. In altri termini, tradotto in soldoni, avremo che il fatto, la vicenda giudiziaria, con tutti i dettagli, resterà, la storia del processo e dell’inchiesta non verranno cancellati, ma chi cercherà, successivamente, su internet il nome del soggetto coinvolto, non lo troverà più perché quel nome sarà cancellato dai motori di ricerca e dunque quel fatto storico non potrà essere più ricondotto alla persona alla fine assolta.

Rimangono, invece, intatti per il resto i rimedi per gli altri casi diversi da quello dell’esito favorevole all’indagato o all’imputato del procedimento penale, relativi alla risalenza nel tempo e al decadimento di interesse alla notizia o nel caso di intervenuta riabilitazione, quali casi previsti e riconosciuti per i quali era già possibile richiedere la deindicizzazione. In detti ultimi casi , infatti, posta la questione, il giudice valuterà se sussiste ancora un interesse pubblico ala notizia o è venuto meno detto interesse, valuterà se nel corso del tempo la notizia sia diventata “falsa” in quanto non aggiornata o ancora se la pubblicazione della notizia abbia danneggiato la dignità dell’interessato e l’esposizione dei fatti le esigenze all’informazione

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Penalista )

                                                                                     

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ATTRIBUZIONE COGNOME AI FIGLI – CORTE COSTITUZIONALE – IN ATTESA DELLA REGOLAMENTAZIONE DA PARTE DEL LEGISLATORE.

La CORTE COSTITUZIONALE ha esaminato oggi le questioni di legittimità costituzionale sulle norme che regolano, nell’ordinamento italiano, l’attribuzione del cognome ai figli. In particolare, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. La Corte ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi. Sarà dunque compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi alla presente decisione. Alla luce di tale regola il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.

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PREGIUDIZIO di COLPEVOLEZZA e GARANTISMO: anche l’Italia dal 14 dicembre recepisce il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio.

La legge sulla presunzione d’innocenza pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 29 novembre scorso, sarà operativa dal 14 dicembre.  In realtà, l’Italia recepisce una Direttiva UE (n. 343 del 2016) secondo la quale le autorità competenti devono astenersi dal presentare le persone sospettate o accusate come se fossero colpevoli, sia in tribunale che di fronte all’opinione pubblica. Di fatto, la predetta legge darà attuazione concreta a un principio già presente nella nostra Costituzione e alla base del nostro Stato di diritto . Assisteremo, dunque, con molta probabilità, ad una rivoluzione culturale nella rappresentazione delle persone sottoposte ad indagini e a processi con il fine preciso di incidere sul diritto di ogni cittadino a non essere “presentato” all’opinione pubblica come colpevole anzitempo.

Posto e precisato, infatti, che l’ INDAGATO è la persona sottoposta alle indagini preliminari e l’IMPUTATO è la persona sottoposta a giudizio, entrambe le figure, non possono essere assimilate al colpevole sino al momento della condanna definitiva.

E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, che è sufficiente, ormai, il famoso avviso di garanzia (atto del Pubblico Ministero con il quale si informa l’indagato del procedimento avviato informandolo della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e invitandolo, contestualmente e per quanto di legga, alla nomina del difensore) affinchè si generi nell’intero “sistema d’opinione” la certezza della colpevolezza salvo poi ad innescare, in conseguenza, una serie di dinamiche che si trasformano in una sorta di mix mediatico micidiale senza via di scampo per chi ne è destinatario. Dimentichiamo, infatti, con facilità, soprattutto quando una vicenda non ci coinvolge direttamente, che ogni vicenda giudiziaria ha un riflesso di non poco conto sul contesto di vita, sugli affetti, sull’immagine, sull’integrità morale, sugli effetti socio-lavorativi della persona coinvolta.

Sul punto nel 2018 si segnala una interessante ricerca sociologica volta ad appurare se diversi livelli di misure di contenimento usate dalla polizia hanno un impatto e influenzano la percezione pubblica di colpevolezza  (progetto Human Rights House Zagabria). I risultati della ricerca in tema di presunzione di innocenza sono stati piuttosto significativi. Invero, è stato riscontrato che qualunque persona tratta in arresto determina la percezione che sia colpevole, anzi detta ricerca precisa che l’opinione pubblica percepisce come colpevole le persone accompagnate dalla polizia, per via della presenza stessa della polizia. Inoltre, viene evidenziato che c’è una correlazione positiva tra alcuni atteggiamenti considerati negativi e la percezione di colpevolezza . Vale a dire che le persone tendono più probabilmente a considerare un soggetto come colpevole se gli attribuiscono atteggiamenti negativi (aggressivi, pericolosi ecc.) Lo studio, infine, rivela che le persone tendono anche a considerare una persona colpevole per via di stereotipi (ad esempio, indossare una felpa con cappuccio genera atteggiamento di sospetto) .

Tornando alla riforma, oggetto della disciplina saranno non solo le dichiarazioni delle autorità coinvolte direttamente nel procedimento penale e cioè pubblici ministeri, giudici, avvocati, dirigenti delle forse di polizia incaricate delle indagini, ma anche le dichiarazioni pubbliche rese da qualsiasi autorità pubblica (esponenti di Enti pubblici territoriali, Agenzie pubbliche e finanche ministri e parlamentari) che riguardino processi penali in corso, anche via web  e social. La finalità dell’innovazione, infatti, è quella di inibire e sterilizzare gli influssi pregiudizievoli sullo status dell’indagato e dell’imputato che possono provenire proprio da soggetti istituzionali a vario titolo dotati di autorità pubblica e operanti in posizioni di  preminenza rispetto alla generalità dei cittadini.

Dunque, d’ora in avanti  (anche se ciò già valeva prima !) nel nostro ordinamento la presunzione di innocenza coprirà  l’intera vicenda processuale: un soggetto incolpato di aver commesso un reato è legalmente “presunto innocente” fin dalle prime battute delle indagini preliminari e sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

L’art 27 della Costituzione menziona proprio la sentenza definitiva: la persona è presunta innocente fino al termine dell’iter processuale ovvero fino a quando si è pronunciata la Corte di Cassazione (nel caso in cui l’interessato attivi tutti i gradi di Giudizio) oppure decorrano i termini per esperire validamente le impugnazioni previste dalla Legge.

Emblematico è proprio un termine che compare nei lavori della Commissione Europea in tema di presunzione di innocenza : “ Opinione preconcetta” . Escludere opinioni preconcette vuol dire abbandonare, ogni pregiudizio sapendo che il processo penale è un congegno delicato fatto di regole e garanzie finalizzate all’accertamento della responsabilità dei singoli e solo il processo, inteso come dibattimento, serve per verificare l’ipotesi d’accusa, e siffatta verifica non può dirsi compiuta fino a quando non sopravviene una sentenza di condanna definitiva che consacra in modo irrevocabile la validità della tesi accusatoria. Questo è certamente il significato più profondo dell’affermazione costituzionale per cui nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva.

È dunque certamente nobile ed encomiabile che, in funzione di prevenzione, gli organi giudiziari e di polizia si spendano attivamente per sensibilizzare l’opinione pubblica sui fenomeni criminali più allarmanti, ma ciò dovrebbe avvenire – come già accade, per esempio, nelle scuole o in altri contesti culturali – al di fuori delle dinamiche del procedimento penale, e comunque in contesti in cui tali attività non rischiano di sfociare in una indebita violazione della presunzione di innocenza delle persone indagate.

Per concludere, l’idea di fondo della normativa sarà quella di limitare al massimo  tramite sterilizzazione, a monte, il materiale che genera quello che è il fenomeno, a tutti noto, della spettacolarizzazione dei processi.

L’esperienza dirà se la via prescelta è quella migliore e se si è approdati ad una matura cultura della comunicazione in grado di coniugare la correttezza dell’informazione con l’esigenza di dar conto all’opinione pubblica delle più significative attività  giudiziarie.

Avv. Carlo Carandente Giarrusso     (Avvocato Penalista – Patrocinante in Cassazione )

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PROCESSO e VERITA’. L’enigma che ossessiona da sempre : l’accertamento dei fatti, come cristallizzato nella sentenza, corrisponde alla realtà ?

Quid est veritas ?   Tradotta letteralmente significa  “Che cos’è la verità ? “ frase famosa o meglio domanda famosa che fu pronunciata da Ponzio Pilato e rivolta durante il suo interrogatorio a Gesù.

Nelle aule di giustizia l’esperienza insegna che la cosiddetta realtà processuale spesso non coincide e non può coincidere per ovvi motivi con la realtà storica, la verità dei fatti cioè come essi si sono oggettivamente svolti.

Può accadere (ma non certo per colpa del giudice) pertanto che colpevoli di delitti gravi siano assolti e persone innocenti vengano condannate.

Il punto della questione, infatti, è proprio questo, il giudice nella ricerca delle prove e nell’esame della vicenda giudiziaria sottopostagli, si trova quasi sempre di fronte a due verità antitetiche: una appunto processuale, fondata sulle prove e indizi raccolti nel corso del processo, e l’altra storica, fondata cioè su quella realmente accaduta.

L’aspetto drammatico del processo, se così vogliamo e possiamo dire, è che il giudice, nel conflitto tra due verità anche se affiorasse e percepisse intuitivamente in lui che la verità processuale, contrasta con la verità reale, è tenuto a seguire la prima dunque dovrà decidere ed emettere la sentenza in base alle risultanze processuali.

Se è vero quindi che giustizia e ingiustizia devono essere pensate in termini di reciproca contrapposizione, è pur vero che anche Socrate e il suo allievo Platone sapevano che una cosa è la giustizia intesa come virtù etica, altra cosa è la giustizia nella quale ci imbattiamo tutti i giorni con le sue regole e i suoi principi alle quali è dovuto il massimo rispetto e della quale occorre prendere coscienza.

Noi operatori della giustizia d’altro canto, abbiamo la consapevolezza etica e giuridica che questa è la realtà e lo spirito che quotidianamente ci muove è quello di propendere verso l’affermazione di processi giusti, per evitare piccole e grandi ingiustizie.

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Penalista – Patrocinante in Cassazione)

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CALUNNIA: l’accusa ingiusta di aver commesso un reato !! Cos’è la calunnia, quando si configura e come difendersi .

Nella romanza “Il Barbiere di Siviglia”, musicata dal grande Gioachino Rossini, la calunnia viene paragonata, inizialmente, ad un leggero venticello che s’introduce destramente e che prende forza, a poco a poco, nella testa della gente. Poi, piano piano, sottovoce viene paragonata ad un’ape che va ronzolando nelle orecchie della pubblica opinione e inizia a radicarsi nelle menti delle persone o addirittura di un’intera comunità. Successivamente la calunnia si muta, aumenta d’intesità e man mano che prende vigore acquista potere tanto che al momento opportuno esplode come un “colpo di cannone” o  in una sorta di tempesta, con tanto di tuoni e fulmini sollevando un tumulto generale di spregio verso il calunniato. Di qui, infine, l’ultima fase, la più grave, il calunniato, isolato, umiliato, deriso e avvilito, il più delle volte muore lentamente di crepacuore per l’ingiustizia ed il male subiti sotto il pubblico flagello della gente che ha prestato fede al calunniatore.

Pensiamo solo per un momento a quanti personaggi pubblici e non sono stati infangati con notizie false e tendenziose fatte circolare sul loro conto a solo scopo di danneggiarli. Celebre, tra i tanti casi di cronaca, rimane quello che nel 1953 coinvolse il figlio dell’allora Ministro degli Esteri, Attilio Piccioni, passato alla storia come il “delitto Montesi”. Piccioni figlio fu arrestato e poi scagionato dopo tre anni. La vicenda venne strumentalizzata in chiave politica per distruggere un alto esponente di un partito appena convocato dall’allora Presidente della repubblica Einaudi per diventare Presidente del Consiglio.

Ciò detto, la CALUNNIA è quel reato, a parere di chi scrive certamente grave, che si configura quando una persona, volutamente e consapevolmente, accusa un’altra della commissione di un reato, sapendola innocente.

Attenzione !

Ho detto: volutamente e consapevolmente !!

Si, proprio così, perché se l’accusa è frutto ad esempio di una errata percezione, il reato non sussiste.

Da sottolineare che il reato di calunnia può essere realizzato anche a mezzo di una denuncia anonima rivolta all’autorità giudiziaria o altra autorità (ad es. polizia, carabinier, guardia di finanza).

A differenza della DIFFAMAZIONE, con il quale il reato di calunnia viene spesso, comunemente e impropriamente, confuso, non si tratta di una offesa generica alla reputazione o all’onore dell’incolpato, ma della falsa attribuzione della commissione di un reato nella consapevolezza ( è bene ripeterlo !) che l’accusa è falsa perché l’incolpato è innocente.

La calunnia appartiene poi alla categoria dei reati “perseguibili d’ufficio”.

Che cosa significa perseguibilità d’ufficio ?

Perseguibilità d’ufficio sta a significare che per la loro punibilità non è necessaria una apposita istanza di punizione, ma una volta presentata una denuncia per calunnia, il procedimento che si instaura prosegue indipendentemente dalla volontà del soggetto che l’ha presentata.

La richiesta, tuttavia, che spesso mi viene rivolta da chi ritiene (a torto o a ragione) di essere vittima di una calunnia ovvero della falsa accusa di commissione di un reato è: avvocato procediamo subito ad una  controdenuncia !!

M è giusto  procedere in tal senso ?

Il punto è che non basta essere innocenti, ma a fronte di una accusa ingiusta, bisogna anche dimostrare di esserlo, motivo per cui inizialmente non è proprio consigliabile procedere ad una controdenuncia.

A parere di chi scrive, la persona falsamente accusata se è in grado di farlo e il caso lo consente, dovrà invece subito indicare agli inquirenti elementi utili alle indagini a suo favore, fornendo ad esempio un alibi o magari indicare nominativi di persone che possono smentire i fatti o le accuse, o ancora produrre documenti a discolpa e comunque tali da dimostrare o provare non solo la propria innocenza, ma anche quella circostanza cui ho fatto inizialmente cenno, ovvero l’intenzione consapevole e dolosa dell’accusa rivoltagli dall’accusatore.

Procedere subito ad una controdenuncia è sconsigliabile. Invero, finchè il procedimento iniziato con la denuncia calunniosa pende, la Procura della Repubblica non prenderà in considerazione la denuncia presentata dall’indagato. E’ dunque, necessario concentrarsi sulla difesa dell’accusa ingiusta salvo poi, una volta eventualmente assolti, valutare se denunciare o agire civilmente per il risarcimento dei danni.  Come riconosciuto dalla giurisprudenza, infatti, il danno da accusa ingiusta va ravvisato in una profonda sofferenza interiore, in un ingiusto patimento causato dall’illecito altrui che viene qualificato come danno morale ( Cass. Civ. SS.UU. n. 2515 del 21.2.2002), oltre che in quello che viene riassunto sotto la voce di danno esistenziale, che racchiude in se la lesione all’immagine, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza.

In sintesi, dunque, gli elementi fondamentali che contraddistinguono il reato di calunnia, sono due:

  • Il primo oggettivo, ovvero l’accusa di aver commesso un reato; a tal fine è opportuno far attenzione che non ravvisa il reato di calunnia, l’attribuire la commissione di un illecito civile, amministrativo o tributario anche se tale accusa è falsa, ma l’accusa ingiusta deve riguardare un fatto-reato penalmente rilevante;
  • Il secondo soggettivo, ovvero l’accusa presuppone nell’accusatore la malafede cioè la consapevolezza di muovere un’accusa falsa.

Una cosa a conclusione di questa breve disamina dell’istituto giuridico della calunnia mi sento rivolgere: attenzione all’uso facile di denunce temerarie, frutto spesso di maldestre costruzioni, nella convinzione di risolvere un problema, in quanto è altrettanto facile esporsi a rischi giuridici piuttosto gravi.

La calunnia è un reato grave !

Grave dal punto di vista penale ma anche per le sue implicazioni morali.

La Giustizia in fondo, se riflettiamo bene, non può diventare un mezzo, uno strumento utilizzabile volto a soddisfare fini del tutto estranei allo spirito stesso della vera giustizia.

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Penalista – Patrocinante in Cassazione)

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IL DIRITTO DEL FUTURO e L’IMPATTO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE .

Ciò che mi affascina in questo momento, in  quanto giurista e uomo di legge, è l’impatto che avrà, nel prossimo futuro, l’intelligenza artificiale sul diritto.

Tutto questo perchè l’intelligenza artificiale per le poche conoscenze che possiedo e per le discussioni in atto tra i cultori, pone interrogativi profondi e inaspettati che investono i campi più qualificati della civiltà sociale e giuridica, prefigurando scenari nei quali può essere messa in discussione l’essenza stessa di quella che consideriamo l’identità umana.

Naturalmente, non è un problema che investe solo i giuristi, ma immagino anche i filosofi, gli scienziati della robotica e dell’intelligenza artificiale.

Immagino che si affaccerà un nuovo mondo per il diritto, proponendo interrogativi che investiranno tutti i campi da quello della salute a quello del lavoro, dell’istruzione, della sicurezza, delle procedure democratiche.

Per questo  gli interrogativi principali che mi pongo sono i seguenti :

  1. quali nuovi strumenti il diritto metterà in campo ?
  2. come coesisteranno e quali principi saranno messi in campo per far coesistere l’uomo e le macchine ?
  3. come si adatteranno tali trasformazioni ai principi costituzionali irrinunciabili quali eguaglianza, dignità, tutela dei diritti inviolabili dell’uomo  ?

Non è fantascienza, è solo il prossimo futuro !!

(Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Penalista – Patrocinate in Cassazione)

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I GENITORI POSSONO PUBBLICARE SUI SOCIAL LE FOTO DEI FIGLI MINORI ?

La domanda  è oggi  più che pertinente ed attuale considerato che, da un lato è evidente che manca il consenso del diretto interessato e dall’altro in alcune circostanze anche quello del genitore, ma anche e soprattutto  in considerazione del fatto che spesso rinveniamo  fatti di cronaca  nei quali viene viene in evidenza quanto sia pericolosa questa  consuetudinaria e voyeristica pratica.

Ma facciamo chiarezza !

Premesso che la tutela dei minori è consacrata dalla Costituzione quando sancisce che la Repubblica Italiana protegge l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo ( artt. 2 e 31, comma II, Cost.), in Italia quando un ragazzo ha meno di 14 anni non può aprire un account su un social network, e non può neanche pubblicare fotografie sue, salvo il consenso dei genitori, in ottemperanza al Decreto Legislativo 101/2018 che ha recepito in Italia il regolamento Ue 679/2016 (Gdpr) e che fissa a 14 anni la soglia minima per iscriversi a un social network senza il consenso dei genitori, i quali devono attivare il profilo a loro nome, firmare le varie liberatorie e l’informativa sulla privacy, per decidere se e quando consentire al figlio minorenne di usufruire della piattaforma.

Le cose cambiano dopo i 14 anni, momento nel quale la legge autorizza i minorenni a gestire un account social come vogliono e senza che i genitori  lo possano impedire.

Il minore, tuttavia, potrebbe negare il consenso alla pubblicazione di immagini che lo ritraggano.

Ma cosa accade se i genitori litigano ?

La legge prevede che sia il padre che la madre possono rivolgersi al tribunale. L’articolo 316 del codice civile, infatti, sul punto testualmente prevede che: “In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei”.

Il giudice, una volta sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che ha compiuto i 12 anni e anche di età inferiore se capace di discernimento, pronuncia le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità della famiglia.

Se il contrasto resta, il giudice attribuisce il potere decisionale al genitore che, nel singolo caso, ritiene possa essere il più idoneo a curare l’interesse del figlio.

Diverse, tuttavia, sono le pronunce di tribunali che condannano un genitore separato per avere pubblicato sui social network delle foto del figlio senza chiedere il consenso dell’altro genitore.

A titolo esemplificativo si segnala :

  • nel 2013 il Tribunale di Livorno che prescrisse l’eliminazione delle foto della figlia minorenne dal profilo Facebook della madre e la disattivazione del profilo della figlia.
  • nel 2017 il Tribunale di Mantova che ordinò a una madre di non inserire le foto dei figli e di rimuovere quelle pubblicate.
  • nel 2017 il Tribunale di Roma che con un’ordinanza del 23 dicembre 2017, stabilì che il genitore che continua a pubblicare sui social network immagini e notizie relative alla vita privata del figlio, violando un precedente divieto dell’autorità giudiziaria, deve rimuovere le immagini e le notizie pubblicate e non farlo più in futuro.
  • nel 2018 il Tribunale di Siracusa che con sentenza del 28 febbraio 2018 n. 397, stabilì che il padre non può pubblicare senza l’autorizzazione della madre le foto dei figli minori sui social network e deve rimuovere quelle che esistono in considerazioni e a tutela del diritto alla privacy del minore e sui pericoli che si verifichi una gestione delle foto da parte di terzi.

In sintesi la giurisprudenza ritiene  – a giusta ragione –  che  anche in questi casi si tratta di  aspetti che attengono all’educazione dei figli in ordine ai quali è necessario comunque che  sussista  un comune accordo dei genitori.

E’ interessante, infine, segnalare per completezza  una recente sentenza dello scorso luglio del Tribunale di Chiesti che ha lasciato al minore, in questo caso diciassettenne, di decidere se prestare il consenso o meno ( sent. n. 403/20 del 21.7.2020 – Tribunale di Chiesti) e ciò anche sul presupposto riconosciuto dalla Suprema Corte di Cassazione che così come nel caso di specie, per la fasce d’età che va dai 16 anni si parla di “ grandi minori”.  Ciò è tanto vero se solo si considera che a 16 anni e a determinate condizioni i minori possono contrare matrimonio, accedere all’interruzione della gravidanza, dopo i 14 anni sono responsabili dei reati commessi ecc.

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Patrocinante in Cassazione)

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LA GELOSIA PUO’ INTEGRARE L’AGGRAVANTE DEI MOTIVI ABIETTI O FUTILI ?

Sul punto si è espressa con sentenza del 29 luglio 2020 la Suprema Corte di Cassazione, V Sezione Penale ,  che con sentenza n. 23075 ha chiarito che la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili di cui all’art. 61, n. 1), c.p. non soltanto allorché essa sia connotata dall’ ABNORMITA’ DELLO STIMOLO POSSESSIVO avverso la persona offesa, ma altresì quando la stessa sia permeata da uno “SPIRITO PUNITIVO”, produttivo di aberranti reazioni emotive a comportamenti della vittima PERCEPITI DALL’AGENTE COME ATTI D’INSUBORDINAZIONE : sulla centralità del principio di autodeterminazione delle persone – correlato con il fondamentale valore della dignità umana – riposa la configurazione in termini di maggiore gravità delle condotte violente che affondino le radici in un deviato sentimento di appartenenza, nutrito dall’imputato nei confronti dell’individuo con il quale ha intrattenuto una relazione affettiva.

In particolare, l’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi richiede la duplice verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il comportamento posto in essere ed il motivo che l’ha ispirato, e del dato soggettivo, rappresentato dalla possibilità di contrassegnare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, cosicché lo stimolo esterno diviene il mero pretesto per la liberazione di un impulso criminale.

(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 3 – 29 luglio 2020, n. 23075)

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Patrocinante in Cassazione )

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DIPENDENTI PUBBLICI COINVOLTI IN PROCESSI PENALI: sospensione obbligatoria o facoltativa ?

Nel caso un dipendente pubblico venga raggiunto da un avviso di garanzia nell’ambito di un procedimento penale, l’Amministrazione di appartenenza, venuta a conoscenza dell’esistenza di detto procedimento è tenuta ad aprire nei suoi confronti un procedimento disciplinare che deve concludersi con una sanzione o un’archiviazione.

A fronte di questa regola generale, tuttavia, onde evitare di compiere attività amministrativa che potrebbe poi rivelarsi inutile o addirittura portare alla revoca di sanzioni disciplinari già comminate, il datore di lavoro pubblico ha la facoltà di sospendere il procedimento disciplinare avviato, correlandolo alla durata e all’esito del procedimento penale, qualora ad es. la particolare complessità del fatto addebitato lo richieda oppure non disponga di elementi sufficienti a supporto di una eventuale sanzione. In questo caso, anche contestualmente, la stessa Amministrazione può sospendere dal servizio in via cautelare il dipendente se la continuazione della sua attività è ritenuta deleteria per l’immagine dell’Ente oppure può divenire occasione per il ripetersi delle condotte illecite contestate.

La norma principale di riferimento in materia che disciplina la SOSPENSIONE CAUTELARE DEL DIPENDENTE PUBBLICO è l’art. 55-ter, del d.lgs. n. 165/2001, rubricato proprio “Rapporto fra procedimento disciplinare e procedimento penale” e che testualmente prevede “Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale. Fatto salvo quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente”.

A seguito della sospensione al dipendente è corrisposta un’indennità di natura assistenziale pari al 50% dello stipendio tabellare in godimento al momento della sospensione nonché gli assegni del nucleo familiare e la retribuzione individuale di anzianità, salvo conguaglio nel caso in cui il procedimento penale si concluda con una pronuncia di assoluzione con formula piena e il procedimento disciplinare, a esso correlato, si chiuda conseguentemente con un provvedimento di archiviazione (la c.d. restitutio in integrum).

La restitutio in integrum connessa alla sospensione facoltativa consiste nella ricostruzione della carriera in termini di anzianità di servizio e pagamento delle retribuzioni non pagate e ha natura retributiva, non risarcitoria. Essa è dovuta, dunque, nel caso in cui interviene l’assoluzione del lavoratore con sentenza passata in giudicato.

Ciò significa che la sospensione cautelare, per il suo carattere unilaterale e discrezionale, non fa venir meno l’obbligazione retributiva ma la sospende e la subordina all’accertamento della responsabilità penale prima e disciplinare dopo del dipendente. Solo qualora il procedimento disciplinare si concluda sfavorevolmente per il dipendente con la sanzione del licenziamento, il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell’adozione della misura cautelare; viceversa qualora la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura tale da non giustificare la sospensione sofferta, il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni arretrate.

Infine è’ stato chiarito dalla giurisprudenza:

1)  che la sospensione NON  rappresenta in sé un provvedimento disciplinare avente CARATTERE SANZIONATORIO, bensì una misura cautelare configurabile come atto strumentale all’adozione di eventuali successivi provvedimenti disciplinari con una durata limitata nel tempo. La finalità della misura è quella di impedire che, in pendenza di un procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l’immagine e il prestigio dell’Amministrazione di appartenenza (Cons. di Stato, Sez. III, sentenza 11 luglio 2014, n. 3587);

2) che per la sua adozione NON E’ RICHIESTO che l’Amministrazione svolga UNA DETTAGLIATA ANALISI DEI FATTI CRIMINOSI ascritti all’impiegato né che si diffonda nell’esame delle valutazioni effettuate in sede penale ma necessita solo dell’APPREZZAMENTO GRAVITA’ DELLE CONDOTTE ADDEBIATATE all’interessato E dell’eventuale TURBAMNETO ARRECATO alla FUNZIONALITA’ DELL’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA dalla sua sottoposizione a procedimento penale (Cons. di Stato, Sez. IV, 12 maggio 2006, n. 2656).

3)  che la sospensione cautelare facoltativa richiede soltanto il presupposto della natura particolarmente grave del reato e non che il dipendente abbia assunto la qualità di imputato, essendo sufficiente a tal fine la sottoposizione a procedimento penale. Quindi ANCHE NELLA FASE DELLE INDAGINI PRELIMINARI è possibile comminare la sospensione dell’impiegato (sul punto, Cons. di St., Sez. VI, sentenza n. 880/2013).

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Patrocinante in Cassazione )

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CORRUZIONE ELETTORALE : ANCHE L’ELETTORE E’ PENALMENTE RESPONSABILE !

Con l’avvicinarsi delle Elezioni politiche per il rinnovo dei due rami del Parlamento, il Senato della Repubblica e la Camera dei Deputati, che avranno luogo domenica 4 marzo 2018, breve riflessione ritengo sia opportuna, circa i rimedi atti a prevenire l’esposizione del sistema al pericolo di assoggettamento ad indebite forme di condizionamento dell’amministrazione della cosa pubblica.
Il tale ottica, a fronte di chiari episodi di malcostume politico-clientelari, verificatisi nel corso degli anni e venuti alla ribalta della cronaca, il legislatore è intervenuto in ordine ai meccanismi di creazione del consenso e rapporto tra eletti ed elettori, punendo penalmente la c.d. “CORRUZIONE ELETTORALE” all’art. 86 DPR 570/60 .

Apro e chiudo parentesi, la reazione della società civile alle diverse forme di corruttela, ivi compresa quella elettorale, costituisce una piaga sociale che va necessariamente combattuta, oltre che sul piano giudiziario, anche e soprattutto sul terreno della promozione di una diversa coscienza sociale. La politica dovrebbe garantire la capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo inserirsi in quelle vicende (ad es. il diritto al riconoscimento di una pensione di invalidità, l’assegnazione ad un alloggio popolare, una licenza commerciale) che, magari, spettando già di diritto, sono fortemente rallentate (a volte artificiosamente!) dal mal funzionamento delle istituzioni. Il malcostume politico, ancora presente nel nostro paese , dimostra, invece, come la ricerca del consenso da parte di candidati, si avvenuto ed avvenga ancora mediante assunzione o promesse di tipo clientelare.

Ciò premesso, per corruzione elettorale deve intendersi, qualunque patto tra l’elettore e il candidato (o chi agisce in suo vantaggio) in funzione del voto e finalizzato ad una specifica promessa (posto di lavoro, soldi o altra utilità) tale da interferire nella libera manifestazione del voto da parte degli elettori.
La ragione di punire simili condotte è da ricercarsi nell’esigenza di preservare da ogni condizionamento la libertà del diritto elettorale, garantire il regolare svolgimento delle campagne elettorali e assicurare che il diritto di voto, come recita l’art. 48 della Costituzione, sia realmente personale, libero e segreto.
La norma contempla due distinte ipotesi criminose: l’una a carico del candidato o di chi agisca a suo vantaggio, il quale per procurarsi il voto od altro vantaggio elettorale offre o promette agli elettori utilità di qualsiasi natura; l’altra a carico dell’elettore il quale per rendere favori elettorali accetta denaro od altra utilità.
Per configurarsi il reato, precisa la giurisprudenza, è sufficiente la semplice promessa di un’utilità o altro da parte del corruttore perché – usando un linguaggio in uso ai tecnici del diritto – siamo in presenza di un reato di pericolo astratto.
Dunque, il secondo comma dell’art. 86 citato, tipizza anche la condotta dell’elettore che a fronte del voto, ha accettato offerte, ricevuto denaro o altra utilità.
E’ passibile, dunque, di punizione, non solo il comportamento del “corruttore” (ad es. il politico di turno che a fronte di fantomatiche promesse chiede in cambio il voto), ma anche dell’elettore.

Spontanee possono sorge, allora, i seguenti interrogativi :
– Ma sostenere un candidato, allora è reato ?
– Partecipare ad es. ad una cena elettorale potrebbe essere scambiata per corruzione elettorale atteso che è finalizzata, comunque, ad ottenere il consenso ?
La risposta, a mio avviso, è negativa e risiede già nella norma .
La cena elettorale, per come normalmente è intesa , costituisce un momento in cui avviene la presentazione dei candidati alle elezioni e l’illustrazione del programma da realizzare. Il voto dei partecipanti, dunque, è meramente eventuale e si rapporta al gradimento che ottiene il candidato e il suo programma da realizzare.
Nella corruzione elettorale, invece, la dazione in favore dell’elettore (sotto qualunque forma avvenga, promessa di un posto di lavoro, soldi o altro futuro vantaggio) costituisce il compenso del voto ottenuto o da ottenere e si pone come controprestazione. Deve cioè sussistere, per parlarsi di corruzione elettorale, un vero rapporto ( anche semplicemente promesso !) tra voto e corresponsione di qualunque utilità , ovvero un rapporto sinallagmatico, come tecnicamente suol chiamarsi, di talchè il voto costituisce la controprestazione per quanto promesso o ricevuto.

( Avv. Carlo Carandente Giarrusso – Patrocinante in Cassazione )

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